A distanza di qualche anno, mi viene un po’ difficile parlare dei racconti di Cattedrale con la stessa intensità con cui ne avrei parlato subito dopo la lettura. Ho qui il libro accanto a me, con la speranza che al solo contatto, al solo sfogliarne le pagine acquistino nuova vita immagini che in realtà non si sono mai sbiadite. Per essere sicura poi che non mi sfugga qualcosa, ho ripescato per l'occasione qualche riga di appunti e considerazioni che avevo scritto all'epoca, parole in cui mi riconosco e che suscitano in me il desiderio di tornare di nuovo a Carver, prima o poi.
Era il 2012, se ricordo bene e, a lettura conclusa, mi convinsi subito, per la mia "seriosa recensione", che non avrei assegnato stellette alla raccolta in quanto ogni racconto avrebbe meritato (e merita ancora) un “punteggio” a se’, almeno quanto a potere evocativo della scrittura, che nel mio caso, ha sempre rappresentato il metro di giudizio di riferimento.
Facendo una considerazione generale, trovai lo stile scarno, asciutto, essenziale, in netto contrasto con l’abisso di disperazione, di rassegnazione, di solitudine dei personaggi che vivono – o meglio, osservano la vita – nelle pagine di quei racconti. Devo dire che inizialmente trovai irritante l’uso del passato prossimo, invece del passato remoto, nella narrazione. Il nostro gusto è stato educato a riconoscere il passato remoto come tempo della narrazione, del fatto compiuto, della storia finita. Non so se, nel caso di Carver, sia stata una scelta del traduttore, quella di adoperare il tempo dell’incompiutezza, dell’azione che ancora non si è chiusa, nella versione italiana. Fatto sta che alla fine, questa scelta si è rivelata funzionale a restituire l’atmosfera sfatta di vite vissute sempre un po’ al margine, o sull’orlo di un baratro. Vite in cui non accade nulla: niente storie che ti tengono col fiato sospeso, niente colpi di scena ne’ effetti speciali.
Eppure, in quelle storie, qualcosa c’è, ed è anche forte, anche se non immediatamente riconoscibile. In ogni racconto c’è il momento dell’epifania, della rivelazione, della presa di coscienza che determina una svolta che paradossalmente lascia immutato il proprio destino. E’ impossibile, per i personaggi di Carver, sottrarsi a se stessi, per mancanza di volontà, di forza, di convinzione. Perchè siamo fatti così.
Sono cinque i racconti che mi colpirono di più:
- Penne: trasfigurazione al contrario della bellezza, un pavone rappresenta l'inevitabile e radicale cambiamento nella vita dei protagonisti. Potere evocativo che mi riporta alla mente Il quinto figlio di Doris Lessing.
- Lo scompartimento: altra epifania, altro momento di presa di coscienza talmente improvviso e forte da cambiare – o lasciare inalterato – il destino del protagonista.
- Una cosa piccola ma buona: l’inspiegabilità di una tragedia che si tenta di sopportare con la vicinanza di altri essere umani.
- Da dove sto chiamando: la dipendenza dall’alcol usata come metafora del bisogno di legami che non siamo in grado di tenere vivi.
- Cattedrale: un cieco che presta i suoi occhi al cinismo rassegnato di un uomo comune della middle class americana.
Intanto è sempre piacevole sentir parlare, o leggere, di un autore caro e custodito accuratamente dentro di noi... In parte si prova una sorta di gelosia infantile, quasi come se qualcuno ci appartenesse e non potesse essere condiviso, in parte si viene un po' scoperti per quanto riguarda la propria anima letteraria, e non solo.
RispondiEliminaCarver è un ricordo legato a una giovane donna di vent'anni che scopre nei racconti che hai ben definito "scarni, asciutti, essenziali", una sorta di nemesi e, allo stesso tempo, uno stimolo a mettersi in discussione. Per una idealista consumata come me, sprofondata in solide convinzioni e poca esperienza, allora, ormai più di un decennio fa, Carver fu la misura della scoperta della potenza del minimo, dell'insignificante enorme e ingombrante nella vita di ciascuno che avrei scoperto solo molti anni più tardi come autentici momenti di solitudine esistenziale. Un mondo chiuso, quello di Carver, come hai ben sottolineato, con personaggi vitime e carnefici di sè, gettatti (come direbbe il buon vecchio Sartre) in un mondo senza senso e senza lieto fine... anzi, proprio senza fine, in una storia sempre aperta e sempre sull'orlo di una svolta che non arriva mai, o no?
"E hai ottenuto quello che volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E cos’è che volevi?
Sentirmi chiamare amato, sentirmi amato sulla terra”.
Cara Vittoria,
RispondiEliminainnanzitutto grazie per questo sentito commento: sai benissimo di essere un'ospite molto gradita di questo blog.
Aggiungo che, in qualche modo, credo di doverti essere riconoscente per avermi indotto, con la tua passione trascinante non solo legata ai tuoi vent'anni, ad avvicinarmi a Carver. La stessa che ritrovo in queste righe, a distanza di anni.
Cosa aggiungere alle tue parole? Ritengo che ci siano scrittori che parlano di noi, raccontandoci in mondi e storie di cui siamo consapevoli protagonisti e regalandoci il piacevole conforto di riconoscerci nelle loro pagine.
Ci sono scrittori che parlano a noi, rivelandoci, talvolta anche brutalmente, a noi stessi in storie e ruoli apparentemente anni luce lontani da noi, ma che - a ben vedere - ci appartengono eccome!
Carver, per me lettrice, appartiene a questa seconda categoria. E se è vero che fa male, è anche vero che mostrandoci le possibili "svolte" che non arrivano, ci lancia una tacita sfida: "E cos'è che volevi?". Credo sia questo il motivo per cui una volta che incontri uno come Carver nelle tue peripezie letterarie, non te lo scordi più.