"Si fa l'abitudine a tutto. Anche alla dinamite. Arrivi perfino a dimenticarti che per quella certa ora di quel certo giorno è previsto un nuovo scossone al tuo provato sistema nervoso (cervello, budella, ognuno ha il suo punto debole), e meno male che c'è un colpo di sirena a ricordartelo. Ovunque tu sia, guardi in alto: è l'istinto che ti fa alzare la testa. Del resto, non arriva forse tutto da lassù? Il bene, il male, che cosa puoi fare se non rivolgere gli occhi al cielo?"
Quando vivevo con i miei, mi affacciavo dalla mia camera, al terzo piano di un villetta bifamiliare, e - se era chiaro - il mio orizzonte era una linea blu, marcata, il Mar Jonio, che ad una estremità sfumava nel grigio delle ciminiere dell'Ilva di Taranto.
Anche vivendo a più di 60 chilometri da quel mostro, riuscivo a distinguerlo da lontano e mi faceva paura. Un mostro che negli ultimi anni è stato costantemente sotto le luci della ribalta ed ha fatto parlare di sè, svelando a tutti che il "cattivo" della storia non erano quelle minacciose ciminiere, ma la mano e la mente umana che le aveva gestite per un tempo infinitamente lungo e che avevano provocato danni infinitamente gravi sulla salute e sull'ambiente circostante.
Le sorti di migliaia di lavoratori lasciati a casa, da un giorno all'altro; il destino di una città che non smette di contare ogni giorno malati di cancro; migliaia di esseri umani schiacciati dal ricatto: lavoro o salute, ignorando - senza pudore - che entrambi sono diritti costituzionalmente riconosciuti e umanamente inalienabili. Suppongo siano questi i motivi per cui, quando ho sentito parlare per la prima volta de La dismissione, non ho potuto fare a meno di cercarlo nelle librerie e comprarlo.
La dismissione parla di un'altra Ilva, quella di Bagnoli (Napoli), altro complesso gigantesco, monumento della rivoluzione economica e industriale dell'Italia post-bellica, a cui - negli anni '90 - viene inflitta la condanna di smantellamento e vendita di alcuni reparti ai cinesi, nonostante l'acciaieria non stesse vivendo un momento di crisi, ma solo per assecondate le logiche di un "capitalismo straccione e una classe dirigente inetta e famelica", come recita la quarta di copertina.
La vicenda è narrata da Vincenzo Buonocore, un operaio che, da manovale, è diventato tecnico del reparto delle colate continue, ed è a lui che tocca il compito di lavorare alla fermata e allo smantellamento del "suo" impianto. Un lavoro a cui si dedica con trasporto e concentrazione, quasi fosse la sua opera d'arte, il suo capolavoro: in realtà, il canto del cigno, dal momento che lo smantellamento dell'acciaieria è metafora per una lenta agonia che riguarda tutte le vite degli abitanti di Bagnoli, e in particolare anche quella di Buonocore. Visto con gli occhi della classe operaia bistrattata e vittima di questa paradossale dismissione, Buonocore potrebbe apparire un crumiro, un venduto, uno che è saltato sul carro del vincitore. Invece no. Non si può evitare di entrare in empatia con il suo racconto, struggente, malinconico, che diventa poesia - a volte - e ridona umanità a degli scenari meccanici, a odori, rumori, ambienti di fumo, veleni, bulloni.
Buonocore stringe amicizia anche con il "nemico", con un cinese che - insieme alla sua delegazione - porterà via i pezzi di Bagnoli e ridarà loro vita nel cuore industriale della Cina.
C'è anche la "minaccia cinese" in queste pagine, così come c'è Napoli, coi suoi vicoli bagnati di pioggia a smentire la sua fama di città del sole; c'è il sottobosco del lavoro nero, della contraffazione; la lunga ombra nera della camorra; c'è la tenerezza e la rabbia di giovani vite vissute all'ombra delle ciminiere; c'è la morte; c'è la speranza e la fine della speranza.
Potrei scrivere all'infinito su questo romanzo che è di sicuro uno dei più belli che abbia letto di recente. Bello e necessario.
Affido alle righe che seguono il tentativo di convincere il lettore a dedicare del tempo a questa storia. Tempo che non sarà affatto sprecato.
"Io non intendo attribuire un'anima alla macchina, come potrebbe accadere a qualcuno di troppa immaginazione. Intendo attribuirla - o non attribuirla - agli uomini che la frequentano. Il punto è essenzialmente questo: l'umanità della macchina è prima di tutto un riflesso della nostra umanità. Se c'è, c'è. Se non c'è, che cosa può fare la macchina se non farsi essa stessa specchio della nostra stupidità diventando a sua volta cieca e brutale?" - CS
Voto: ★ ★ ★ ★
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