mercoledì 4 febbraio 2015

American Sniper

Pecore, lupi e cani pastore. E le mie scuse al buon vecchio Clint.

Intorno ad una tavola apparecchiata per il pranzo, nei primi anni ’80, un autoritario padre americano – davanti ad una moglie muta – spiega ai suoi due figli maschi che esistono tre generi di persone al mondo: le pecore, i lupi e i cani pastore. I suoi figli dovranno crescere non vili come le pecore, ne’ spavaldi come i lupi, ma pronti a proteggere e difendere i più deboli come i cani pastore. In un’altra scena, l’autoritario signor Kyle usa la stessa metafora per insegnare a suo figlio Chris, non ancora adolescente, a cacciare, mettendogli in mano un pesante fucile che il ragazzino impugna senza esitazione per sparare e colpire a morte un cervo.



Facile fare i cani pastore quando hai un fucile in mano di fronte ad un animale inerme, questa la mia constatazione a pochi minuti dall’inizio di un film che mi ha infastidito da subito a tal punto da farmi desiderare di trovarmi altrove, piuttosto che dover assistere a quello che intuivo sarebbe stato un ovvio e smodato trionfo di retorica a stelle e strisce. E fino alla fine della proiezione, più volte sono stata tentata di alzarmi ed andarmene.

Quel fastidio me lo sentivo appiccicato addosso, non ce la facevo a sopportare il patriottismo tronfio di quel bisteccone texano che credeva in Dio, nella patria e nella famiglia e che durante le missioni in Iraq si era guadagnato il soprannome di “Leggenda” per aver collezionato al suo attivo 160 bersagli umani. Pensavo che dopo quel film, anche la sola vista di Bradley Cooper (che è pur sempre un’ottima vista), mi avrebbe enormemente irritata.

Oltre al fastidio, mi arrovellavo nel tentativo di darmi una spiegazione su come avesse potuto quello che per me è l’autore di una trilogia perfetta (Mystic River, Million Dollar Baby e Gran Torino), cadere, in modo dozzinale e plateale, nella trappola della propaganda più bieca del nazionalismo: Clint, perché mi hai fatto questo?

Mi rendevo conto però di non essere in grado di “sospendere volontariamente la mia incredulità”, come dicevano i Romantici inglesi: non riuscivo a non giudicare, ad astenermi dalla ricerca di aspetti etici e morali e apprezzare il film come opera d’arte, per quanto delirio di fanatismo a livelli esagerati. Art for art’s sake, l’arte per il gusto dell’arte: no, questa volta non ce la facevo. Per giorni mi sono quasi macerata in una sorta di senso di colpa: ero riuscita persino a guardare Scarface, che per me è uno dei film più brutti e abbietti della storia del cinema, ma il buon vecchio Clint non riuscivo a perdonarlo.

Poi, all’improvviso, dopo giorni in cui quelle immagini ancora mi passavano davanti agli occhi, la folgorazione. Ho visto. Anzi, ho smesso di vedere attraverso i filtri delle mie convinzioni. E American Sniper ha smesso di essere un film “fastidioso” ed è diventato un film impegnato ed impegnativo. All’improvviso, il bisteccone Cooper è diventato un personaggio figlio della sua epoca, appartenente ad una comunità e ad una società, quella americana, che fino all’11 settembre 2001 non aveva mai vissuto la guerra sul proprio suolo. D’un tratto, lo stile scarno e secco della narrazione, l’assoluta assenza di momenti epici, gli spari precisi e sordi, quelle esitazioni con l’occhio fisso nel mirino, il dualismo tra “civiltà” e selvaggi, hanno assunto altre connotazioni.

Prima di tutto, la trama è ispirata ad una biografia, quella di Chris Kyle, il cecchino più letale della storia americana, a cui sono attribuite– quasi come un vanto – 160 vittime ufficiali: questo fa sì che il punto di vista adottato sia quello di un Navy Seal che si arruola da volontario nel corpo speciale dell’esercito americano, con tanto di allenamenti alla Full Metal Jacket.

E poi la manichea divisione del mondo in buoni e cattivi: i cattivi, di pelle scura, incivili e musulmani. I buoni, ça va sans dire… gli americani. Diventa palese la contrapposizione tra Chris “Leggenda” che spara e uccide, nascosto sui tetti, e che torna in patria da eroe, e Mustafa, anche lui cecchino che spara e uccide, nascosto sui tetti. Solo che Mustafa è quello cattivo, lui sta dalla parte del Male, lui che ha armi di precisione ma neanche un elmetto e gli anfibi militari per combattere adeguatamente un nemico che ha mezzi blindati e sofisticati sistemi elettronici contro un esercito senza divise.

Chris ha una moglie e due bambini a casa ad aspettarlo, e si suppone che il suo sacrificio ed il suo senso di protezione verso la sua famiglia possano giustificare i colpi esplosi da centinaia di metri, per sorprendere il nemico alle spalle. Mustafa ha una moglie ed un bambino e fa esattamente quello che fa Chris, ma lui è il nemico da abbattere e la sua famiglia, la sua patria, il suo Dio non valgono quanto quelli di Chris e non giustificano i colpi esplosi dal suo fucile.

Il dubbio, l’interrogativo morale su quanto sia giusto sparare ad un bambino che sta per lanciare una mina sulle fila dei marines; le esitazioni di un soldato di fronte alla guerra e alla vanagloria che essa produce; le continue richieste della moglie di tornare a casa ed occuparsi dei bambini, tutto questo diventa segno di debolezza agli occhi di Chris, agli occhi di un uomo che non vorresti mai come compagno di vita, ne’ come vicino di casa e alla cui possibilità di ravvedimento, pur concedendogli il beneficio del dubbio, non si crede mai fino in fondo: lui non è come i soldati di De Gregori, quelli che “si va dritti a casa senza più pensare/che la guerra è bella anche se fa male”. Lui torna a casa, e nonostante il trauma evidente, nutre l’unico rammarico di non aver ucciso di più per proteggere i suoi uomini. Tiene armi in casa e ci gioca, con disinvoltura, davanti ai suoi bambini, con sua moglie. Quando decide di dare una mano ai reduci, li accompagna al poligono per aiutarli a migliorare la mira.

Se fosse valida la legge del taglione, occhio per occhio, si potrebbe pensare che alla fine riceva la giusta punizione: muore per mano di un reduce che da di matto a seguito dei traumi riportati in guerra. Ma la sua morte assume i contorni di un semplice e tragico paradosso: lui che ha riportato a casa salva la pelle in quattro missioni, lui che ha sfidato tempeste di sabbia e dato la caccia ai più pericolosi nemici, cade sotto il colpo di un ex soldato, un americano che come lui credeva in Dio, nella patria e nella famiglia.

Gli ultimi fotogrammi ritraggono l’America, il Texas che lo salutano coi funerali di Stato. Qui Clint non commenta, non condanna né assolve, anzi si nasconde quanto più possibile dietro una asettica macchina da presa: si limita a lasciare scorrere immagini reali del febbraio 2013, quando parate militari e bandiere a mezz’asta celebrarono le esequie di un eroe nazionale. Un eroe le cui medaglie restano comunque sporche di sangue e che nulla ha di diverso rispetto ad un sanguinario assassino, se non essere nato dalla parte "giusta" dell’Oceano.

Questo ne fa un film riuscito, un film che – per forza di cose – va oltre “l’arte per il gusto dell’arte” e che è vero che può essere pericolosamente male interpretato, ma che è capace di svelare, senza didascalie, che in guerra non esistono buoni o cattivi, che i cani pastore si rivelano, sempre, lupi travestiti da agnelli, quando imbracciano il fucile e sparano alle spalle.

Non userò aggettivi entusiastici per chiudere queste righe, ma in qualche modo dovevo delle scuse al buon vecchio Clint per aver dubitato di lui. E quando leggerà queste parole, sono sicura che vorrà accettarle. - CS

Voto: ★ ★ ★ ★

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